Lettera sulla Felicità (a Meneceo)

Nella mia vita ho sempre detto, scherzando, di non avere un cuore. Ha sempre fatto parte del mio personaggio, della parte che mi sono sempre divertito a recitare, maschere pirandelliane e tutto il resto. Ironia della sorte, solo da poco mi sono dovuto scontrare con la realtà, quella di avercelo un cuore, e che purtroppo non è tanto sano.

In fondo saperlo mi ha dato da preoccuparmi davvero solo per pochi minuti, qualche ora al massimo. Se si guarda tutto da un altro punto di vista, non è davvero una notizia così tremenda. Sono nato, e già questo è di per se’ una casualità, e sono nato nella parte del globo più fortunata, senza dover mai davvero lottare per sopravvivere, e senza problemi fisici che mi abbiano dato davvero problemi. Ho vinto, ho perso, ho gioito e sofferto. Ho la soddisfazione di poter dire di non aver potuto essere più di ciò che sono diventato in questo momento.

Ho visto persone essere colpite da tragedie davvero molto più serie, malattie molto più gravose e vite molto più sfortunate. Il fatto di sapere di potermene andare improvvisamente cambia davvero qualcosa? In fondo ho solo una percentuale più sfavorevole rispetto agli altri, ma anche per loro è la stessa cosa. Basta un colpo di sonno al volante, una distrazione mentre si attraversa, la sfortuna di vivere in un edificio instabile. E magari sarà così pure per me, solo si somma un altro fattore che io non posso, e non voglio, controllare.

Ed è bello non dover pianificare, pensare di avere una data di scadenza. Mi sono sempre voluto sentire libero, e questo non cambierà mai. Anzi, è come se avessi il respiro più profondo, e il sangue più bollente, le gambe più infaticabili. L’ho detto, nella vita ho vinto ed ho perso. Giocherò la mia partita fino alla fine.

IL LIBER PARTE IV

Se venisse dal lontano Oriente un mastro artigiano

Ad offrirsi di costruirmi un letto da Re

Con una struttura in legno solida e lucida, ricca di intarsi che raccontano battaglie mai conosciute

E delle doghe robuste ma gentili, come le braccia di una madre col suo bambino

Lenzuola di seta, pregiate e sinuose come la pelle di una bella amante

Un baldacchino a nascondere il mio corpo dallo sbirciare curioso del Sole all’alba

E dei cuscini che si facciano diario di sogni vividi e lacrime versate

Io rifiuterei.

Senza di te, che dormi adagiata sul mio fianco

Sarebbe come dormire sull’asfalto, tra nebbia e buio

ELEGIE PARTE IV

Se stai leggendo questa lettera vuol dire che è arrivato per me il momento di partire.

So che non capirai. Neppure io ho mai capito mio padre fino a molto tempo dopo che se ne era andato. Siamo una famiglia di pescatori, lo siamo sempre stati e sempre lo saremo, ricordo che ripeteva sempre mio nonno mentre cambiava le reti nel mare, con la fronte annerita dal sole madida di sudore, le mani callose e piene di tagli. Io ne ero fiero davvero, ero fiero di essere parte di quella comunità piccola, insignificante ma piena di vita, un nido di formiche che viveva bene con ciò che la natura sceglieva, nel bene e nel male, di donargli.

Mio padre era diverso. Si lanciava appena capitava per le avventure più strane, cercando una fortuna che solo lui vedeva, un pentolone di monete d’oro che lo attendeva dove un suo arcobaleno immaginario toccava il suolo. Ogni tanto riusciva a rimediare qualcosa. Ogni tanto, molto più spesso, tornava a casa vivo per miracolo. Quello che contava per me era la sua assenza dalla mia vita per mesi interi, ed io dovetti imparare prima del tempo a prendere il suo posto sulla barca, mentre mia madre si faceva sempre più curva e silenziosa e i miei nonni intraprendevano l’ultimo viaggio uno dopo l’altro.

Neanche i capelli e la barba sempre più grigi, e le rughe trincerate sul suo volto, e le gambe sempre più pesanti riuscivano a fermarlo. Ora ti sarà chiaro il motivo per il quale non ci parlavamo da anni, per il quale non era presente al nostro matrimonio, non ha mai salutato il nostro bambino, non mi sono preoccupato della sua sorte quando sono passati anni dal suo ultimo avvistamento dall’altra parte del mondo. Ed è servito tutto questo affinché io lo capissi per la prima volta.

Forse sono riuscito a vedere per la prima volta il quadro nella sua interezza, facendo un passo indietro per dare uno sguardo d’insieme senza soffermarmi ad un palmo dal naso sulla tavola vuota, le lacrime della donna e la solitudine del bambino. E per la prima volta ho visto la pentola ai piedi dell’arcobaleno. Non mi fraintendere. Non è mai stata questione di ricchezze materiali. Quello di cui andava a caccia mio padre è sempre stato di più. Era lasciare una vita di cicli interminabili di nascita, lavoro e morte, con qualche timido momento di felicità per gli affetti, per poi tornare nella stessa monotonia. Era lasciare tutto questo per l’avventura stessa, per la speranza che davvero ci fosse qualcosa oltre il mare ad attenderlo. Per la speranza che ci fosse qualcosa nella vita che valesse la pena inseguire.

Credo di aver capito mio padre e la mela non cade mai lontano dall’albero. Anche il mio destino è lì, nella nebbia dei forse e dei rimpianti quando le cose andranno male. Nel sole del primo mattino quando riuscirò a domare una tempesta dopo una notte infernale. Non odiatemi troppo, ve ne prego. Ho scelto di seguire per la prima volta la mia natura. Forse mi andrà bene, forse ritroverò il mio vecchio nell’oltretomba dei sognatori. Ma per la prima volta, in tutta la mia insulsa vita, i miei polmoni si saranno davvero dispiegati al soffio della vita.

GIAMBO PARTE III

Insomma è notte e ho la pancia a pezzi per una pizza surgelata della Lidl, comprata dopo: una fila per entrare a distanza di un metro, correttamente rispettata, da vecchie che sanno benissimo di essere a rischio contagio di tipoqualsiasicosa; una distanza all’interno di un metro, correttamente rispettata, da gente che si tiene la mascherina sotto il naso e tossisce sui pomodori; una distanza alla cassa di un metro, correttamente rispettata, da elettori di Salvini che hanno ancora 17 euro in spicci direttamente nelle tasche. Che io ancora mi chiedo come facciate, senza sembrare 2Pac all’apice della carriera prima di digievolvere in un groviera. Però ok, ho metabolizzato tutto. Ho a che fare con degli stronzi così spesso che figuriamoci, la quarantena per me è stata un 25 Aprile lungo 3 mesi. Forse ho la pancia a pezzi anche per le 5 birre thailandesi che mi sono scolato dopo la birra surgelata per metabolizzare meglio. La gente intendo, non la pizza.

Fatto sta che saranno le 5 e io ancora mi giro e mi rigiro nel letto, sembro un vecchio LP malconcio in uno di quei jukebox malconci che si vedono nei film americani, quelli che si inceppano e poi ripartono dopo un pugno a caso, e penso che magari davvero mi ci vuole davvero un bel pugno per riassestarmi e dormire serenamente. Così sto per chiamare la sede locale di Casapound e dire che però anche Che Guevara aveva fatto cose buone, in modo tale che mi mandano 5 adepti a casa e risolvo il problema dell’insonnia, quando apro gli occhi e intravedo nel buio, dall’altra parte della stanza, una figura totalmente ammantata di nero.

Gli chiedo chi sia. Uno spirito, mi risponde. No grazie, per stasera ho già dato, ribatto. Lui si toglie il cappuccio rivelando un volto dai lineamenti gentili, i capelli composti alla Clark Kent e lo stesso fisico statuario. Non posso avere dubbi su chi sia.

-Giuseppe Conte! Cosa ci fai qui, non dovresti essere a fare nomi e cognomi come i pentiti di mafia?

-Stupido, ho assunto questa forma solo per l’occasione. Sai che giorno è oggi?

-Certo, è il 12 Aprile.

-Esatto. E’ Pasqua. E, a parte farti notare che hai trovato- per discutibili necessità narrative- un supermercato aperto a Pasqua, domani è Pasquetta. Ed io sono lo spirito della Pasquetta passata, e sono qui per farti riflettere su quanto la tua vita sia cambiata.

-Eh, qualcosa me lo diceva quel giorno che non dovevo passare a Tim.

Così schiocca le dita e ci ritroviamo in un campo di girasoli, nell’aria calda del sud e nessuna nuvola all’orizzonte. Le uniche due sagome che si distinguono sono quelle di due ragazzi, vestiti con delle canotte e che parlano sedute tenendosi per mano, con dei cmq e dei xk che rendono la conversazione indecifrabile.

-A cosa pensi?- mi chiede il fantasma della Pasquetta passata.

-Eh che ci vestivamo proprio di merda, per non parlare di quella piaga degli SMS che ha mietuto vittime tra i compiti di grammatica. E poi perché quest’anno fa più freddo?

-Sciocco- tuona il fantasma- intendo a cosa ti fa pensare emotivamente rivederti lì.

-Ah. Eh, si viveva meglio. Ero felice, potevo uscire, criticavo uno stato così per partito perso eppure avevo tutte le libertà di questo mondo. Ero giovane. In questo momento l’amore della mia vita mi stava dicendo che non ci saremmo visti per un’estate perché si sarebbe dovuta fare un villaggio vacanze, e io la rassicuravo che questo non avrebbe cambiato nulla tra di noi.

-Ed è stato così?

-Eh no, effettivamente si è FATTA tutto un villaggio vacanze, poi mi ha mollato.

-Ah..ehm… beh scusa ma ho lasciato la tartarre nel forno, ti lascio al mio collega.

Svanisce in una nuvola nera, e nello stesso punto ricompare la stessa figura di Giuseppe Conte. Immagino perché lui non cambi mai fisicamente da quando aveva 2 anni. Mi porta nella stessa stanza in cui ero la sera, a ruttare a fatica davanti alle dirette Facebook di Matteo Salvini mentre ingurgitavo gli alimenti di cui sopra. Lo Spirito sta per aprire bocca, ma poi cambia idea, mi guarda scuotendo la testa con le sopracciglia aggottate e scompare nella stessa nuvola. Boh, forse è allergico ai peperoni. Nello stesso istante ricompare la stessa figura, solo con un paio di rughe in più e una spilla in oro massiccio che recita “Imperatore dell’Universo Conosciuto”.

-Sono lo Spirito della Pasquetta futura- tuona con una tonalità ben più profonda dei suoi predecessori- e sto per farti vedere cosa ti attende negli anni a venire.

Pregando nella mia testa di ritrovarmi nel mogano con i miriapodi a farmi effusioni, mi ritrovo in un campo di girasoli. L’aria è calda. Nessuna nuvola all’orizzonte. Riconosco a malapena il me del futuro, ormai senza capelli e con una sindrome metabolica inarginabile. Lei è bellissima, i capelli corvini sciolti sulle spalle, un ciuffo a coprire metà viso slanciato e impegnato in un sorriso enigmatico, con le gote imperlate di lentiggini che la rendono il ritratto dell’innocenza ben oltre qualsiasi fantasia da pittore si possa immaginare.

-Sono io? E lei è la donna della mia vita? Ma che anno è?- chiedo senza fiato.

-AHAHAHAHAHAHAHAH no macché, lei è in realtà virtuale e tu sei a 500 metri da casa solo perché hai un’autocertificazione falsa, ma secondo te potevi mai realizzare qualcosa del genere?- risponde a stento lo spirito, rannicchiandosi per le risate senza fiato.

E poi niente, mi sono svegliato e ho capito che la mia vita era, è e sarà sempre una merda. Però se proprio vogliamo trovarci una morale universale, beh è che anche la vostra era, è e lo sarà. O meglio, ha avuto alti e bassi. Siamo caduti, ci siamo rialzati. Andremo avanti. Passeremo Pasquette a casa e all’aperto, magari per scelta, magari per una pandemia (come non se ne ricordano dai tempi della Poliomelite e che potremo ingigantire a piacimento nei racconti alle generazioni future), magari per imprevisti come una guerra termonucleare. La morale in ogni caso è che siamo umani. E per quante differenze ci siano tra noi, nel profondo siamo uguali. Quindi non fate il mio stesso errore mischiando pizza coi peperoni e 5 birre per cena.

DE BELLO CIVILE PARTE III

-Ti ho sognata stanotte

-Ah sì? Cosa facevamo?

-Nulla. È questa la parte più importante di tutte. Eravamo sulla solita spiaggia, con i soliti amici, a fare le solite cose, ed eravamo felici. Non c’era nulla di particolare: giocavamo, facevamo il bagno e le nostre massime lamentele erano per la sabbia bollente, per gli insetti al tramonto e per i nostri genitori che ci fissavano degli orari. Non era grandioso? Perché non ci ritorniamo più? Facciamo una grande rimpatriata. Ora sento parlare di SPA, di viaggi a Bali e di bungee jumping dal Monte Bianco per staccare dal mondo. A noi bastava quella spiaggia. Perché non ci siamo più?

-La ricordo bene quella spiaggia. Eravamo bambini.

-Già, bambini. E che fine hanno fatto quei bambini? Che fine abbiamo fatto? Dio, non ricordavo che il faro facesse questo suono assordante però.

-Come è stata la tua giornata?

-La mia giornata? Beh, è stata stressante. Mi sono svegliato all’alba, è stata una fatica alzarsi con il gelo fuori e i tropici sotto le coperte. Mi sono dovuto preparare la colazione perché ora vivo da solo e non me la fa trovare pronta nessuno. E odio i miei colleghi ma devo assecondare le loro stupide conversazioni, altrimenti penserebbero che io sia strano. E ho dovuto ridere alle stupide battute del mio capo per essere al livello degli altri. E nonostante tutto questo sono stato comunque stato trattato con superiorità e ignorato. Che bordello il rumore del faro, mi sta dando troppo fastidio. Ah, e poi ho scoperto di avere una gomma a terra, e tempo di sostituirla che mettendo in moto mi sono ricordato di essere in riserva e sono dovuto scappare alla benzina più vicina, che ora non ti dico quanto costa. E poi pranzo in solitaria, Netflix e pomeriggio passato tra documenti da sistemare e bollette da pagare. Maledetto faro, è insopportabile, non trovi? E niente, mi è mancato tanto quel bambino. E probabilmente ecco perché siamo qui, e ti ho sognata, e mi sono chiesto dove siamo finiti. Dove sono finiti i bambini. Perché la spiaggia è sempre lì, non si è spostata. E purtroppo neppure quel faro, fastidioso più che mai. Fumo come allora, sai? Avevo smesso. Tipo per una settimana. Ma poi il mio nervosismo è venuto fuori. E non solo per come io venga trattato da ultima ruota del carro, ma per come vengono trattate da ultime ruote del carro le ultime ruote del carro. Sai, quei poveretti nei parcheggi dei supermercati, gli indiani che vendono le rose, i nigeriani che raccolgono pomodori e tornano nelle loro case umide in bicicletta in piena notte. E noi nella nostra macchina riscaldata che ci lamentiamo perché li abbiamo scansati per poco. Ecco, perché non li vedevamo prima? Perché devo notare ora questa sofferenza intorno a me e mi deve dare fastidio la paradossale accusa verso i sofferenti? Perché prima non dovevo neppure conoscere il significato della parola “paradossale”, figuriamoci fare un discorso del genere, ed ero felice lo stesso? E perché questo cazzo di faro faceva meno rumore? … perché sorridi?

-Perché ogni tanto lo rivedo in te il bambino. Quando fai questi pensieri torna fuori. E no, non ci potremo tornare alla spiaggia, perché non ci siamo più. Perché IO non ci sono più. Tu ci sei ancora, sepolto tra le cose dei grandi. Ci sei ancora. E ogni tanto è più forte di te tornare, ed è allora che mi sogni. Perché io sarò sempre qui ad ascoltarti, sempre bambina, perché non posso invecchiare, e vivere come te. Ah, il faro non ha mai fatto rumore, quella che senti è la tua sveglia. È ora di alzarti.

DE BREVITATE VITAE PARTE III

La prima volta che incontrai il signore del Tempo fu nel 2046.

Ero in Polizia. Non me la cavavo male, avevo il giusto mix tra intuito e disciplina che mi aveva permesso di fare strada piuttosto velocemente. Non che non vedessi cose che mi facessero ancora accapponare la pelle. Giusto quel giorno ero stato in Tribunale per assistere a un processo, di un tipo che avevo arrestato per aver ammazzato la moglie. Non che ci volesse tanto intuito per un caso come quello, ma a quanto pare i giudici non ne avevano abbastanza perché lo giudicarono innocente, così all’uscita dal Tribunale il padre decise di piantargli una pallottola in testa. Piuttosto spiacevole, dovetti correre a casa a fare subito il bucato per ripulirmi i pezzi di cervella sparsi per il completo. Poi mi aprii una birra.

Proprio mentre mi gustavo il momento clou del film sul mio divano, lui entrò come se nulla fosse davanti ai miei occhi. Non mi sorpresi. Come ho detto me ne capitano di cose strane, come quando non riesco a ritrovare mai nei cassetti due calzini abbinati. Gli chiesi chi fosse. Il signore del Tempo, mi rispose. Preferisco gli Scottex, provai a sdrammatizzare. Mi disse che aveva il potere di farmi tornare indietro nel tempo, di rivivere delle fasi più felici della mia vita. Carino, dissi, te la cavi anche con i giochi di carte? Evidentemente non aveva anche il potere dell’umorismo, perché rimase in silenzio. Così, per rompere il momento di imbarazzo, lo assecondai.

Portami ai giorni dell’accademia. Ero forte, bello e con ancora tutti i capelli in testa. Il signore del Tempo si guadagnava il suo stipendio, ammesso che ne avesse uno, perché ripresi coscienza davvero nella mia stanza ai tempi dell’accademia, nel mio corpo vent’anni più giovane. Allora persino io rimasi sorpreso che tutto questo fosse reale, e mi misi a fumare senza muovere un muscolo, aspettando che sbucasse fuori una di quelle cose raccapriccianti che ti fanno capire di essere finito in un film horror. Come una femminista vegana con il ciclo.

A quanto pare non era il mio caso, perché dopo un pacchetto era cambiata solo l’aria, che era diventata una via di mezzo tra Milano e l’11 Settembre. Fu allora che iniziò la mia giornata da incubo. Ricordai di come fosse asfissiante dover eseguire alla lettera gli ordini, le punizioni e le fatiche fisiche che mi imponevano. Non avevo relazioni sociali, non che in futuro avrei brillato. Però almeno sarei stato libero di avere qualche donna occasionale e frequentare qualcuno di più stimolante di quegli scimmioni che non avrei mai più rivisto sulla mia strada. Quando la sera rividi il signore del Tempo, quindi, gli chiesi di portarmi ai tempi del liceo.

Di sicuro avevo perso in bellezza. Non ricordavo proprio che avessi più crateri della Luna sulla faccia, né che fossi abile a farmi la barba quanto un presidente americano a mantenere la pace. Non riuscivo proprio a inserirmi nei discorsi musicali, dato che ormai ero abbastanza maturo da rendermi conto che la musica che ascoltavo fosse imbarazzante. Le ragazze mi scansavano come un pirata non interpretato da Johnny Depp o Orlando Bloom, e inutile dire che la mia cultura nello specifico mi aveva abbandonato da un po’. Così ci riprovai, e volli tornare bambino.

Mi resi conto del perché odiassi i bambini. Stupidi, superficiali e sempre allegri. In ordine crescente di gravità. Dopo altri tentativi di tornare indietro, ero tornato ad attaccarmi al seno di mia madre per restare in vita. Approfittando di una sua assenza in modo da non sembrare un ladro di neonati (sì, il signore del Tempo era nero), tornò da me e mi chiese un responso finale.

Solo allora maturai una grande consapevolezza. Ovvero che ancora più che dalla speranza nel futuro siamo ossessionati dalla nostalgia del passato. Mi venne in mente che nel mio presente c’erano i nostalgici della Lega, ai tempi della Lega quelli del Duce o della monarchia, ai tempi del Duce e della monarchia quelli dell’Impero Romano. Ripensai a quante volte mi mancava mio padre anche se era un alcolizzato che gonfiava mia madre come i soldati coi prigionieri in Iraq. E quante ex ragazze mi erano mancate, quelle che in fin dei conti erano state frigide, schive, bugiarde o semplicemente non mi erano mai piaciute davvero.

Ho realizzato che non si stava davvero meglio quando si stava peggio. E io con la mia birrozza sul divano non stavo affatto male. Portami a casa, gli provai a dire con la lallazione.

GIAMBO PARTE II

Ho iniziato ad odiare il genere umano più o meno quando ho iniziato ad odiare dio. E non intendo un dio in particolare, per carità, ho sempre odiato proprio l’idea della divinità in generale. Credo di odiare l’esistenza umana proprio per colpa del dio che l’uomo ha voluto ideare, il suo creatore “a sua immagine e somiglianza”.

Cioè, andiamo, un essere infinito, in un momento di noia, ha voluto crearti e saresti uscito fuori tu? Avremmo tanto da discutere, un Papa ed io. Innanzitutto se siamo a sua immagine e somiglianza vuol dire che ha bisogno di cacare, e se non può proprio essere infinito ma perlomeno si estenderà pure per qualche decina di chilometri, se noi col nostro intestino di individui che arrivano in media massimo a due metri produciamo quello che produciamo, beh, non oso immaginare. E no, decisamente non voglio sapere a questo punto cosa siano la pioggia e la neve.

E la storia del Paradiso? Come la guardi guardi davvero non ha senso. Immagino quello cristiano sopra le nuvole come una spiaggia. Bellissima eh, tipo il Salento senza bambini e famiglie che si accollano al tuo posto con sdraio e tavoli su cui consumano parmigiane e pasta al forno. E animatori, perché ovviamente quelli vanno di diritto nel girone dantesco di loro competenza. Ma cosa dovrei fare lì per un’eternità? Un tipo iperattivo come me ha bisogno di garanzie, li avete due racchettoni o un baretto con una birrozza ghiacciata? Offre quasi di più la concorrenza, se non fosse che 72 vergini manco me le godrei. Cioè sì, se ci arrivassi vergine pure io sì, ma almeno 50 ragazze in vita tua puoi farcela a portartele a letto con una vita dissoluta, e non c’è bisogno neanche di farti esplodere. E poi dai, che palle le vergini, che gusto ci sarebbe a rifare 72 volte sesso per la prima volta con una, la prima volta non piace mai a nessuno.

E soprattutto, perché un dio avrebbe voluto far funzionare i nostri corpi al contrario? Dovremmo gattonare, e camminare stentatamente, per gran parte della nostra vita, per poterci sorprendere di quanto possiamo esplorare questo mondo. E solo infine correre, perché tanto abbiamo già percorso tutto, e non dobbiamo sorprenderci più dei panorami e dei tragitti. Dobbiamo solo arrivare alla meta il più presto possibile, anche se salteremo ogni tappa, ogni paesaggio, ogni dettaglio che ci riporterebbe alla mente qualcosa. Perché i nostri vecchi occhi non lo colgono più, il nostro cuore indurito neppure più ci fa caso, la nostra mente è distratta dal quotidiano che è l’unica cosa per cui conti davvero vivere.

Sono ateo perché un vero dio ci darebbe l’opportunità di goderci i piccoli momenti quando ancora possiamo farlo, quando ancora siamo ingenui, e solo alla fine del viaggio possiamo dimenticarcene.

APOKOLOKYNTOSIS PARTE IV

-Buongiorno.

-Buongiorno. Desidera?

-Un caffè macchiato grazie.

-Arriva.

-Si tratta di un ordine così strano? Vedo che sta ridendo tra sé e sé.

-No, mi scusi, è solo che avrei potuto intuire la sua ordinazione sin da quando è entrato nel bar.

-Ah sì? E perché mai?

-Beh mi scuserà se le parlerò schiettamente. Anzi posso darti del tu visto che a occhio e croce abbiamo più o meno la stessa età? Sei entrato in un bar con una maglietta di Game of Thrones, fiero, cioè davvero vuol dire che a te è piaciuto come hanno ridotto quella serie, come hanno trattato quella sceneggiatura, come si sono involuti quei personaggi. O, ancora peggio, ne sei orgoglioso e te ne fai vanto. Quindi sei il tipo che avrebbe potuto ordinare solo due cose: una birra analcolica, e avrei dovuto tirare fuori quelle casse impolverate, le vedi?

-Quelle accanto ai manifesti “Juventus campione d’Europa”?

-Esatto. Oppure avresti potuto ordinare un caffè macchiato. Che, detto francamente, dovrebbe essere un reato. Cioè, ordini un caffè, orgoglio italiano, e ne mascheri il classico sapore agrodolce con del latte dolce e pastoso. Non ci siamo. Scommetto che sei uno di quei tipi che non ordinano una pizza puramente Margherita, ma magari la vogliono con le patatine fritte sopra.

-Beh..

-E aspetta, ascolti trap. Come tutti quei quindicenni stupidi che alla loro età anziché pensare al futuro pensano a rimorchiare. O no, aspetta, ascolti indie. Un branco di artisti disagiati e rifiutati da qualsiasi etichetta discografica che hanno dovuto investire loro stessi per poter suonare, ed ora scrivono canzoni per bimbi depressi o sfornano tormentoni estivi all’occorrenza. A te cosa frega della musica italiana storica, eh? Nessuno sarà mai come De André. Chi potrebbe mai scrivere come De André? E suonare come De André? E rivoluzionare la musica come Vasco Rossi? E riempire i palazzetti come Ligabue?

-Veramente..

-Sono sicuro che sei anche un appassionato di videogiochi. Uno di quelli che non hanno degli amici nel mondo reale, e provano a crearsi una dimensione tutta loro fatta di pixels e di realtà virtuale. E a te non frega un cazzo della storia, perché hai uno bello schermo e basta che sembri figo per sentirti importante. Che ne sai di quando avevamo un Nokia 3330 e giocavamo a Snake come massima espressione di tecnologia? E non avevamo Wikipedia, sai? Avevamo Encarta. Dei cd infiniti per avere un’enciclopedia parzialmente accurata a disposizione. E la connessione? Faceva un bordello assurdo, e funzionava solo se collegavi il pc al modem con il cavo.

-Ma..

-Quindi vedi film di supereroi. E ti convinci che gli effetti speciali fatti oggi siano il massimo, vero? Che ne sai delle riprese fatte a mano, delle pellicole con i buchi neri, dei montaggi palesi? E hai mai dovuto riavvolgere una videocassetta prima di poterla guardare di nuovo? E sei mai dovuto tornare alla cieca alla scena che volevi vedere?

-Ho paura.

-Come?

-Sì, da come mi parli mi sembra di averti ferito. E non volevo. Sì, ho avuto tutto questo, eppure non l’ho mai voluto. Era lì, c’era stato in altri modi prima e ci sarà in altri modi dopo di me. Il tempo passa, la gente passa, le cose che la gente nel tempo costruisce passano. Ma spero di non diventare mai come te: un nostalgico di cose che critica il figlio, o il nipote, o chiunque più piccolo di lui, solo per rinfacciargli il fatto di essere stato parte del mondo che era alla base del suo. Come i nonni che parlano della guerra, ma senza neppure essere stato in guerra. Dimmi, tu sei stato in guerra?

-No, ma..

-Hai studiato sceneggiatura, recitazione, arte, fatto il conservatorio, regia, informatica?

-No, però..

-Il mio caffè è pronto?

APOKOLOKYNTOSIS PARTE III

Egidio, il mio vicino, è nato nel 1934. Si tratta di una veneranda età per un uomo, e per uno della mia generazione è davvero impensabile che abbia vissuto una Guerra Mondiale. Impensabile nel vero senso del termine, perché io non saprei davvero come mi sarei comportato, o ancora meglio se sarei esistito in partenza, data la mia etnia, nel bel mezzo di una Guerra Mondiale. Già, perché la scelta era pressapoco partire per la guerra e patire la fame, oppure restare in casa e patire la fame. Egidio, essendo giovane, questa scelta non l’ha mai dovuta fare. Egidio ha visto i suoi fratelli maggiori partire per quella guerra e non fare mai più ritorno, eppure non spenderebbe mai neppure una lacrima per loro. In fondo non li ha mai conosciuti mai per davvero quei suoi fratelli, anche se le loro bare venivano etichettate come bare di veri patrioti e vedeva le lacrime di sua madre tranciare le sue gote durante i loro funerali. Egidio ha vissuto una vita di pace. La sua unica passione è stata il biliardino, o, come la dice lunga sulla cultura dell’epoca, il “calciobalilla”. Già, perché Egidio, nonostante i suoi fratelli fossero andati a morire per un’ideologia le cui idee deliranti non conosceva davvero, è sempre stato Fascista. Ed il motivo principale è che Egidio ha potuto, con i disastrosi fondi che rimanevano all’Italia nel Secondo Dopoguerra, frequentare solo la scuola elementare prima di essere inesorabilmente consegnato ad una vita di duro lavoro in fabbrica. Ha visto solo del nero Egidio, per tutta la sua vita, e guardando fuori dai finestroni ammuffiti ha sempre pensato alla sua famiglia che lo aspettava a casa come unico, misero, stimolo per timbrare il cartellino alla fine della giornata.

Poi ci sei tu. Sei nato nel 2004. Sei nato quando i computer erano una tecnologia affermata, quasi superata dopo l’avvento dei Pad. Sei nato nell’era dei genitori distratti, pessimisti, insofferenti per i loro problemi quotidiani, tanto da essere disposti a comprarti un iPhone a 9 anni pur di non sentirti più lamentarti di come tu non possa usare quando ti pare il telefono di mamma con i suoi cento colori. Sei arrivato alle scuole superiori per inerzia, certo, ma lì le droghe erano ampiamente disponibili quando le chiedevi, e potevi farne uso quando volevi, bastava avere un minimo di paura delle pattuglie di paese che non ti avrebbero mai perquisito come in una dittatura. Ma sai cosa, le scuole pubbliche non facevano per te, quindi hai deciso di frequentare una scuola privata che per una mazzetta ti faceva andare bene che fosse un tuo momentaneo stato di confusione mentale la tua risposta che Dante avesse scritto i Promessi Sposi. Tanto, al modico costo di una macchina l’anno, avresti conseguito il diploma e potuto per legge “lavorare” nell’impresa di famiglia, fare dei soldi e sposarti a 25 anni, e tutto questo non perché tu l’avessi scelto.

Benvenuto nella Democrazia che ti permette di criticare la vita di un fascista.

Giambo

Questa è per te che esci con quella che hai trovato su Tinder ed è sexy la metà di quello che sembrava in foto. Ma comunque magari hai pagato la benzina per andare da lei, per galanteria le hai offerto il cocktail quindi ora non puoi tirarti indietro anche se è la copia invecchiata male di tutto cio’ che Photoshop potrebbe partorire. Te la sei cercata amico.

Questa è per te che pensi di avere la storia d’amore della tua vita con persone che cercano ogni pretesto per stare lontane da te. Palestra, amici, viaggi. Ops. Magari sei un po’ cornuta e non dovresti nutrirci tante speranze sul fatto che lui sia il Principe Azzurro delle favole.

Questa è per te che rinunci ad amici, conoscenti e comitive perché secondo te il Principe Azzurro l’hai trovato, solo che a lui non va di uscire dato che gli offri già vitto, alloggio e pernottamento (questo era in senso ambiguo se non lo hai capito).

Questa è per te che pensavi che una serata con le amiche senza il tuo ragazzo non ti avrebbe mai spinto a tradirlo, nemmeno psicologicamente. E poi ti sei trovata davanti casualmente tutto quello a cui potevi ambire, anche per colpa dell’alcol che ti aveva abbassato le pretese. E hai scelto il male minore tra tradimento e rimorso di una vita.

Questo è per te che ti credi superiore a tutti perché ti tieni lontano da loro e hai avuto tutti i loro difetti. Perché ti sei buttato, ti sei illuso e ti sei recluso. Per te che ti senti giudice e invece sei il giudicato.